Editoriale apparso su Klichè n. 44
di Bruna Larosa
I luoghi comuni facilitano i concetti e la
comunicabilità. Magari sarebbe necessario uno sforzo per raffinare il
linguaggio e, soprattutto nella forma scritta e ancor di più in quella
destinata alla pubblicazione, le frasi dovrebbero essere scevre da consuetudini,
libere da ridondanze, pulite e schiette… È anche vero, però, che se non sempre
la storia dei luoghi comuni può definirsi affascinante dall’altra la loro
origine è, sempre, curiosa e il loro utilizzo assolutamente implacabile.
L’Italia è il Bel Paese fatto da pizza, mafia e mandolino, ad esempio. La vita
è una giostra, anche. Chiusa una porta si apre un portone, pure. La lingua è
viva: ogni giorno l’articoliamo e la rendiamo più ricca invadendola di piccole
novità. I luoghi comuni sono a metà tra ieri e oggi, tra un proverbio e dei
modi di dire: vere e proprie locuzioni che specificano e, talvolta,
giustificano in un solo colpo una situazione. Nessun ambito della vita ne è
esente, infatti non importa che un ambiente sia dinamico o statico, i luoghi
comuni esistono anche lì. Un esempio? La scuola “ero in ritardo per il
traffico”. “Non sono preparato perché è morto il gatto”, “i compiti li ho fatti
ma ho dimenticato il quaderno a casa”. Talmente collaudati da essere presi per
una scusa anche nel malaugurato caso siano verità. Una locuzione che, dato
l’uso e il riuso è passata alla gloria dei luoghi comuni è il doloroso e a
volte perfido “le faremo sapere”. Piccola frase di rito che conclude i colloqui
di lavoro senza dare adito all’esito della prova. Il candidato rimane in
bilico, mentre l’accomodante “le faremo sapere” solo raramente trova riscontro.
Così, mentre la fotografia immortala il Bel Paese tra un perbenismo imperante e
un bisogno di risposte, l’unico luogo comune che sembra reggere, mentre tutto
crolla, è la regola benedettina dell’ora
et labora, prega, spera e continua a fare il tuo dovere.
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