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giovedì 26 maggio 2011

Cos'è un ricordo


di Bruna Larosa

Vorrei raccontarvi di un mondo che non c’è più, al pari di Atlantide è scomparso da decine di anni eppure pochi sembrano essersene accorti. Prima che la cassa per il Mezzogiorno provocasse nicchie di potere e corruzione, prima che il rispetto si confondesse in omertà e i sorrisi diventassero ombrosi, esisteva una Calabria oggi dimenticata. Mi piace pensare che sia assopita in attesa di tornare a fare notizia. Qual è la dignità di una terra ridotta a mero ‘esempio negativo’, l’assoluta pecora nera, quella da nominare solo per il peggio e per gli scempi che gli uomini vi provocano? Vorrei parlare della Calabria che c’era, prima che i preziosi alberi di ulivo diventassero lussuosa radica per ville molto lontane da qui…

Se il mare, che da sempre lambisce queste coste, potesse parlare racconterebbe di una terra avara, irrigata dal sudore delle donne e degli uomini che con costanza le si dedicavano. Probabilmente spenderebbe più di una parola per i commercianti con carretto e cavallo che la percorrevano in lungo e in largo attratti da sapori e profumi, loro merce; vorrebbe sicuramente riferire di quanti l’hanno abbandonata, quant’altri invece, vi hanno trovato rifugio in epoche lontane. Avrebbe di che dire delle processioni di anime al seguito di istallazioni umane, delle donne dai fazzoletti neri dignitosamente usurati e accomodati sui capelli. Descriverebbe le fiamme dei fuochi propiziatori che alla fine dell’estate arrivano alle stelle, dei canti che si perdono nel terso azzurro dei pomeriggi ricurvi sulle piccole, nere olive da rastrellare; si soffermerebbe sulle storie e sugli aneddoti, su quella visione un po’ magica e religiosa della morte e della vita.

L’immaginazione va formando sagome di giovani madri seguite da nidiate di figli, tutti vestiti di un sorriso, che si fanno avanti per strade tracciate tra i fondi di ulivi; uomini taciturni e riguardosi, che regolano le relazioni familiari all’interno della stretta comunità. Ma è il mare che parla, e da Mare non dimenticherebbe di menzionare le fiumare che piangono rivoli d’acqua d’estate e d’inverno diventano fiumi impetuosi; delle montagne su cui si rinvengono ancora conchiglie, dei tramonti che incendiano il cielo, della sabbia e delle pietre, delle scogliere a picco sull’acqua; delle barche che solcano le onde di notte e di giorno, mentre il frinire delle cicale sui gelsi della spiaggia, diventa sempre più lontano. Se c’è un orgoglio per la proprie origini, per la propria terra, deve essere la consapevolezza di un passato onesto e misurato.

L’abito migliore della Calabria è fatto di lavoro e di natura, di persone che hanno costruito ogni cosa con passione e dolore sognando un futuro diverso certamente dal nostro presente. Ma il narratore in questo caso è il Mare, ed egli, che non si perde in beghe, non dimenticherebbe di parlare di un ulivo cresciuto su un riarso scoglio, storto e contorto nel tronco, eppur così vivo da continuare a donare i suoi frutti, come a pagare un tacito pegno per l’esistenza al cielo, verso cui timidamente si staglia.


Pubblicato su Il Sileno n. 10 - 11 Anno III

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