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martedì 25 gennaio 2011

Viaggi di sola andata, ma non sempre


di Bruna Larosa

I ricordi che scorrono con lucidità, mentre con gli occhi bassi sui fogli dà sfogo alla passione per la scrittura, maturata da qualche anno. Paolo Ferri è il tipico italiano medio, classe 1923, col viso rugoso e le mani lente ma precise. Lui è stato uno dei giovani chiamati a svolgere il servizio militare in quel particolare momento storico in cui l’esercito tedesco da alleato è diventato repentinamente il nemico da combattere. Catturato nei pressi di Firenze viene caricato con altri commilitoni su un treno carico di persone, comincia così il suo lungo viaggio verso Burghausen, dove trascorrerà lunghi mesi di prigionia. Il campo di concentramento sorgeva ai piedi di una collina che declinava dolcemente verso un lago, oggi è una tranquilla cittadina che ha voluto cancellare il suo passato storico anche distruggendo la struttura del lager. Eppure chi ci ha vissuto non conserva ricordi che il tempo potrà sbiadire, ricordi che si colorano delle grida di paura e di dolore rinverdendo la pesantezza di un’esperienza che segna per sempre.


Il profondo turbamento non traspare mentre la voce cadenzata e tranquilla del sig. Ferri riempie l’aria di scene difficili da immaginare altrimenti. Racconta come se vivesse dei flash il viaggio e poi la permanenza “In treno qualcuno aveva sollevato alcune delle assi di legno che componevano il pavimento del vagone, ci si lasciava scivolare di notte tra un binario e l’altro lungo la strada ferrata per tentare la fuga nonostante le sentinelle di coda al treno crivellassero di colpi il terreno al minimo dubbio”. Su quel treno non c’erano le panche e neppure i servizi igienici, c’era chi piangeva e chi pregava, mentre i vagoni, maschili e femminili ad ogni stazione diventavano sempre più affollati. Non è certo inutile sottolineare che per molti quello è stato un viaggio di sola andata.


“Dopo giorni di viaggio arrivammo ad una stazione dove avvenne la prima selezione: le donne e gli uomini troppo provati o malaticci e i bambini vennero portati via. Lì rimanemmo relativamente pochi e soprattutto uomini, quasi tutti italiani anche se di religioni e di provenienza diversa. Io venni destinato alla lavorazione di metalli pesanti in una fabbrica che sorgeva lì. Parlavano in tedesco, non si preoccupavano che noi capissimo, avevano facce tirate e severe e noi eravamo semplicemente stranieri, tristi e… schiavi. Quando aprivo gli occhi la mattina sentivo dolori da per tutto e giorno dopo giorno andava sempre peggio”. “Arrivò il momento in cui non ce la facevo più a portare avanti quel tipo di lavorazione, probabilmente se ne accorsero, ma prima di portarmi via, chissà dove, cercarono altri modi per sfruttarmi al massimo”. Venne portato insieme ad altri in una località verdeggiante dove venne di nuovo messo in fila “I proprietari delle terre e delle fattorie dislocate tra le vallate ci aspettavano, avrebbero scelto tra noi chi avrebbe lavorato i loro campi. Io sono stato scelto come contadino e fattore per la fattoria di una famiglia benestante”.


Pulsante è il ricordo della fame, che in un contesto simile non è più una ‘semplice’ sensazione, qualcosa che rimane confinato al corpo, la fame lì diventa un sentimento, un pensiero fisso. “Mangiavamo bucce di patate e pane, una quantità minima che non ci sfamava e ci permetteva solo di trascinarci da un giorno all’altro, mentre i nostri ‘padroni’ gettavano grandi quantità di avanzi e non pensavano di destinare qualcosa a noi. Dovevamo lavorare duramente comunque, anche quando eravamo malati, quando lo sconforto ci attraversava il cuore e se qualcuno non ce la faceva veniva portato via”. In questa condizione di schiavitù il signor Ferri ha trascorso due anni. “Quando è arrivato il momento di tornar a casa non riuscivo a crederci. Durante il periodo di schiavitù ho pensato tante volte all’Italia, al paradosso del passare da cittadino a schiavo. Ho pensato mille volte ai volti dei miei cari, alla mia casetta e anche alla guerra, che non dovrebbe esistere. Ho pensato tante cose, tutto ed il contrario di tutto in quei lunghi mesi di dolore, ho pensato che non sarei più tornato”.


Invece il sig. Ferri è tornato, egli è uno dei sopravvissuti ad un lager nazista. In Italia si è ricostruito una vita, sposando una donna tenace, Maria, ma non ha mai dimenticato i lunghi mesi di dolore, lo sconforto e la frustrazione. Il male della guerra alcuni uomini tentano di custodirlo nel cuore perché non debba ferire altri, finché la consapevolezza che il sonno della ragione genera mostri fa capire che il non parlare non fa cicatrizzare il male, bensì crea, momento dopo momento, una nuova ferita. Ad 87 anni, il sig. Ferri è l’ultimo rimasto tra i commilitoni che vennero catturati a Firenze in quel mai troppo lontano conflitto mondiale ed è lo stesso uomo che oggi si emoziona ancora per quelle piccole cose preziose che nella mancanza dimostrano la loro straordinarietà.






Pubblicato sul numero di Mezzoeuro n.3 in edicola dal 22 gennaio 2011

4 commenti:

  1. Da queste persone il mondo intero dovrebbe prendere esempio...Ma a quanto pare, cambiano i modi, cambiano le strategie e le armi...ma ogni epoca ha un suo stile di guerra ed un suo tipo di prigionia. I giovani d'oggi sono prigionieri dei problemi che l'evoluzione, l'economia(guerra attuale) fa continuamente. Lavori precari o disoccupazione...diversità sociali...e governi che spaccano le nazioni in guelfi e ghibellini...ah, povera Vita!

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  2. Ricordare ciò che è stato può renderci più forti difronte alle difficoltà della vita, che ci sono, nonostante tutto.

    Grazie del tuo commento.

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  3. Ho riletto. E' un tema talmente familiare (mio padre che pure ha avuto disavventure di campi di prigionia se li legge tutti e poi me li racconta) che è anche difficile saperli descrivere. Qui ci ho sentito quasi un profumo di case contro il puzzo marcio dei vagoni di legno; ed è un contrasto buono, ed è ottimismo quotidiano e non ideologico.

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